Graziano Manni

“Con una testimonianza”

È stato uno dei testimoni e uno dei protagonisti più silenziosi d’una intera stagione della pittura emiliana, il trentennio incominciato nell’ultimo dopoguerra che intorno a lui vide primeggiare chiaristi e informali, figurativi e surrealisti, ma ha cercato di non lasciarsi intrappolare in uno schema o in un’etichetta. Walter Morselli (1912 – 1976) ha sempre guardato da appartato le mode pittoriche di questo periodo, che spesso duravano solo lo spazio di un  mattino, perché quasi sempre arrivavano dall’estero e non avevano il tempo di metter radici: soprattutto avevano poco a che fare in un paese che l’arte l’a aveva sempre praticata creandola dal proprio profondo intorno a due “poli” che, dal tempo di Giotto, si sono sempre rincorsi con alterne prevalenze, classicismo e realismo.  A determinare la durata di queste mode è stato infatti un collezionismo esasperato, spesso poco colto e di tipo consumistico.  Qualcuno può ben obiettare che per il collezionismo l’arte ha da sempre rappresentato uno status symbol, un prodotto da esibire, una patente per nuovi  ricchi o per non disinteressati mecenati.  Ma la storia dell’arte emiliana ha annoverato artisti che pur prestandosi ad accontentare signori e potenti d’ogni genere seppero ugualmente lasciare una traccia più duratura del bronzo. Cosimo Tura, Ercole Roberti e Guido  Mazzoni sono fra questi. Il collezionismo dei signori non riuscì a trasformarli in ripetitori di tendenze e di idee altrui.  Però qualcuno ha fatto qualche differenza. A Bologna Francesco Arcangeli ricordava una singolare annotazione che gli aveva fatto a suo tempo il suo amico Giorgio Morandi: “Masaccio non andava in giro per le corti, Piero  della Francesca sì”. Un giudizio che la diceva lunga in bocca a un pittore che in vita non ebbe grandi attenzioni.  In realtà il mecenatismo dei principi non era poi tanto diverso dalle “protezioni” che concedevano cardinali e banchieri e dalle committenze che questi ultimi assegnavano agli artisti e letterati.  Dunque il vero dato che ha sempre costituito la differenza è stato il talento del singolo pittore o dello scultore e la qualità delle sue opere: cioè quello che lo ha di fatto connotato e che ne ha distinto nella cultura del suo tempo l’autonomia d’espressione.
 Morselli non può certo essere annoverato tra gli artisti che sono andati alla  ricerca di committenze, e ciò intanto garantisce della sua spontaneità dato che quando lavorava pensava a dipingere solo per se stesso.
Ritorniamo ai due “poli” che abbiamo sopra richiamato, e vedremo come il pittore modenese di cui parliamo si inserisca senza sforzo in questa tradizione della nostra cultura figurativa in un periodo in cui il dato realistico prevale sull’ideale classico, proprio sulla scia del lavoro che svolgeva l’altro suo gran conterraneo e contemporaneo che stigmatizzava il cortigianesimo di Piero della Francesca, cioè Giorgio Morandi.
Per Morselli, all’inizio, la ricerca del vero diventa imperativo categorico, da coltivare prima di ogni altra cosa.
La tecnica rappresenta soltanto il modo di esprimere la “sua” realtà.
Poi mano a mano questo dato si addolcisce e la sua pittura si inserisce siamo negli anni Sessanta in uno dei grandi filoni figurativi dell’arte contemporanea, quello dell’impressionismo a cui il pittore resterà fedele per tutta la vita senza tentennamenti.
La replica fedele d’un dipinto di Renoir, con una coppia di giovani che ballano, restò per mesi e mesi sul suo cavalletto apparentemente senza un senso per i pochi che allora frequentavano il suo studio.
I risultati di questa meditazione si vedranno però quando Walter Morselli riprenderà il pennello per dedicarsi soprattutto al paesaggio e alle scene di genere.
A impressionarlo oltre a Renoir e i suoi seguaci saranno soprattutto le nature  morte di Giorgio Morandi, in quegli anni conosciuto soltanto da una parte del collezionismo, non certo dal grosso pubblico.
Quel rigore nella descrizione, l’essenzialità del segno, accompagneranno tutta la produzione successiva di Morselli che ha sempre dipinto in solitudine e per pochi che lo conoscevano.
 Aveva incominciato come autodidatta avendo frequentato nell’anteguerra l’istituto d’arte “Venturi” di Modena.  Non amava mettersi in mostra e non cercò di accedere al mercato dell’arte in alcun modo, dato che ne ignorava gli accessi, pensando forse che avrebbe dovuto succedere il contrario: doveva essere se mai il mercato ad avvicinarsi a lui, cosa oggi assai difficile se non si sa approfittare delle opportunità e trovare compromessi con chi le rappresenta che offre il mondo rutilante della pubblicità e in genere dei media.  Morselli aveva passato i suoi anni giovanili, ben quattro, in Jugoslavia, in una sporca guerra dalla quale il suo Paese era uscito sconfitto e lacerato.  Come quella precedente lasciava un’eredità di lutti e miserie, e un senso di vuoto e di prostrazione in coloro che vi avevano preso parte e che erano sopravvissuti. Un’esperienza che lo aveva certamente toccato in profondità e che aveva lasciato tracce importanti in un giovane artista, che era però tornato come detto con molte delusioni e poche speranze.  In un pittore estroverso ciò avrebbe potuto costituire un patrimonio da mettere a frutto: non per Morselli che si è chiuso nel proprio mondo.  Dopo questi anni infatti la sua ispirazione si è fermata, anche se i ricordi di quel conflitto sanguinoso e inutile, tornavano alla mente di tanto in tanto.  Questi ricordi riemergeranno sulla tavolozza soltanto anni dopo, quando il pittore riprenderà i pennelli, e ne vediamo alcuni esempi nelle tre lastre incise che compaiono nel presente catalogo e che costituiscono un ripensamento maturo.  Questo in pratica rappresenta un’antologia del suo lavoro che va sostanzialmente dal 1960 sino alla scomparsa del pittore nel 1976. Dunque un pittore scontroso, non interessato al mercato dell’arte, che si è fatto vedere di rado.  Due o tre personali in tutta la carriera.  Una cartella di disegni, da lui incisi nel lontano 1958 quando risiedeva a Pavullo sull’appennino modenese, fu da lui riesumata e stampata soltanto nel 1969 in pochissimi esemplari, una settantina.  Parlava poco e malvolentieri, introverso come la propria arte, la sua faccia si illuminava soltanto quando rispondeva alle domande sulla sua pittura nel suo studio senza fronzoli dove lo abbiamo conosciuto in via Carlo Zucchi a Modena. Quando raramente Morselli s’è mostrato, molti si domandavano da dove venissero quei quadri pieni di ombre, dai colori concatenati e non visto sì, quelle nature morte piene di disperata solitudine.  F fotografavano folgorazioni improvvise, illuminazioni di un attimo.  Gli organizzatori indicavano nome ed indirizzo del pittore.  Soltanto qualcuno trovò poi il modo di venire a Modena per incontrare il pittore e per prendersi qualche quadro, di quelli a cui Morselli non teneva molto, perché per gli altri non c’era verso. Eppure la sua città in quegli non si può dire non fosse ricettiva, sia nei confronti degli artisti modenesi che di coloro che venivano da fuori a mostrare le loro opere. C’erano sette – otto gallerie che operavano praticamente a pieno ritmo negli anni Sessanta-Settanta, e certo non trascurarono l’arte dei propri concittadini.  La <Saletta> dell’avvocato Allegretti al Nazionale aveva da poco chiuso i battenti dopo una stagione intensissima nella quale si era fatta conoscere in tutto il Paese e che aveva anticipato i tempi mostrando alcuni dei nomi che avrebbero sfondato proprio negli anni successivi.  E molti artisti modenesi come Pelloni, Semprebon, Mario Venturelli e Pompeo Vecchiati raccoglievano i frutti di quanto avevano seminato negli anni precedenti. Con ciò s’intende dire che la latitanza di Morselli era unicamente dovuta al suo spirito solitario.  Lavorava infatti praticamente soltanto per sé, senza minimamente curarsi del giudizio degli altri, non certo per una forma di presunzione o d’alterigia, quanto anzi per l’innata rassegnazione caratteriale alla modestia e alla consapevolezza che il successo appartenesse e dovesse appartenere a quelli che sanno esibirsi.  Si sono trovati pochissimi artisti cosi combinati, e non ne ricordiamo uno che sia riuscito ad avere un nome sonante vita natural durante.  Walter Morselli meriterebbe davvero da parte dei suoi concittadini almeno un risarcimento postumo.  Aveva un tratto velocissimo col gessetto come accade ai buoni disegnatori e col pennello stendeva senza pentimenti.  Nascevano in questo modo impressioni sulla fatica dell’uomo in paesaggi ombrosi, quasi incupiti dalla lente che inquadrava la lucida rassegnazione di chi ha rinunciato a lottare.  E poi i rapidi flash sugli oggetti e sulle creature colti in un attimo subito trascorso: vi traspare sempre la solitudine silenziosa di un uomo che osserva in  punta di piedi, ma con lucida attenzione agli stati d’animo.  La sua produzione, quantitativamente molto scarsa, rispecchia una ricerca continua dal punto di vista della forma che è lo specchio d’un pessimismo misurato ma senza via d’uscita: un modo per vincere la propria solitudine e per sentirsi vivi.